Il lavoro: una brutta impressione

di Marco Barbuglio

pubblicato sul secondo numero di Kalpa, magazine dell’associazione Andrene di Padova

A Giulio il lavoro fece sempre una brutta impressione, fu così sin da bambino, sin dalla domanda «che lavoro vuoi fare da grande?» a cui rispondeva orgogliosamente «il pensionato!». Sì, perchè la vita dei suoi nonni gli sembrò già da allora più auspicabile di quella dei suoi genitori: tutto quel tempo via da casa per poi tornare stanchi e di cattivo umore lo portava a domandarsi perchè non vivessero la vita come i nonni, proprio non capiva. «Mamma, papà, perché non restate anche voi a giocare?» insisteva martellante il piccolo Giulio.
Le risposte arrivarono nel giro di poco tempo e non furono necessarie grandi spiegazioni. Giulio capì ben presto che la sua orgogliosa risposta non era valida, stava barando a un gioco in cui tutti rispettano minuziosamente le regole. Dovette quindi ricalcolare, ripensare il proprio futuro per farsi trovare preparato a quella scomoda e frequente domanda togliendosi di dosso quella sensazione da impostore. Decise allora che sarebbe diventato un vigile del fuoco, come suo zio e suo nonno prima di lui. La vita iniziava a chiedergli compromessi tra ciò che era e ciò che doveva essere.

II

Giulio si era allineato alle regole del gioco, ma questa faccenda del lavoro continuò a fargli una brutta impressione e non poté fare a meno di iniziare ad osservare tutto ciò più da vicino. Cominciò proprio da suo padre, da quella strana sensazione di orgoglio e allo stesso tempo di estraneità che gli dava vedere quell’elegante signore tornare a casa la sera e che, con maniacale ritualità, ripiegava i vestiti con cui era stato in ufficio.
Per Giulio era un appuntamento fisso, si sdraiava sul tappeto della camera e stava a guardare la quotidiana metamorfosi in cui un impiegato ricoperto di profumo tornava ad essere il suo papà. Attaccava la giacca sull’appendiabiti, annusava la camicia assicurandosi che non fosse sporca per poi piegarla minuziosamente. Sfilava la cintura e l’ appendeva sulla portiera interna dell’armadio assieme a tutte le altre: “Che se ne farà di tutte quelle cinture?” si domandava Giulio ogni volta. Iniziava a riconoscerlo. Abbassava i lunghi calzini alle caviglie lasciando un profondo segno dell’elastico sotto il ginocchio che quasi sembrava si fosse stampato sulla pelle. Infine, indossava la giacca della solita tuta grigia con le scritte magenta e fino a quando la cena non era pronta girava per casa in mutande, la sua mezz’ora di libertà. Il lavoro aveva restituito a Giulio il suo papà, ostaggio volontario di una banca per otto ore: riusciva finalmente a riconoscerlo e non appena varcava la soglia della camera Giulio si fiondava assieme alla sorella a sedersi sui suoi piedi e aggrappati ai polpacci diventavano i suoi pesantissimi scarponi da montagna. «La cena è pronta!» gridava mamma e a suon di teatrali “oh issa!” iniziava la scarpinata verso la cucina.

III

Giulio da spettatore del lavoro divenne presto attore e le impressioni continuarono a evolvere. Il suo primo ingresso in scena fu nell’estate dei diciannove anni, quando, finita la maturità, il padre gli trovò un lavoro estivo in un negozio di pezzi di ricambi per auto. Furono settimane calde dal sapore di padania industriale e cemento bollente che Giulio trascorse a bordo di una vecchia Panda bianca senza climatizzatore e servosterzo che lo costrinse a dover continuamente scegliere tra l’afa estiva e lo smog dei camion della zona industriale. Il suo compito fu quello di consegnare i pezzi di ricambio alle varie officine e inizialmente fu un ruolo gratificante che lo fece sentire grande, finalmente trattato da adulto. Nei colleghi e nei meccanici da cui si recava c’era l’entusiasmo nel vedere una faccia nuova, quella di un giovane che aveva ancora tutto da imparare. Tra i volti che Giulio preferiva incontrare tra le prime consegne del mattino c’era quello di Fabrizia, una signora che gestiva le forniture dell’officina del marito e che lo aspettava al bancone del negozio con un sorriso esclusivamente per lui. Solo con Giulio, infatti, Fabrizia mostrava un entusiasmo ignoto a tutti, interrompeva i suoi discorsi e i suoi gesti automatizzati per riaccendere lo sguardo e accogliere il giovane fattorino che vedeva parcheggiare attraverso la vetrina del negozio. Giulio non comprese mai davvero le ragioni di un trattamento così affettuoso: “forse le ricordo suo figlio”, ipotizzò talvolta, ma la verità è che non si pose mai più di tanto la questione, gli faceva piacere e andava bene così.
In quelle settimane, assieme alla soddisfazione, Giulio sperimentò anche la monotonia: le sue giornate non si erano mai somigliate così tanto l’una all’altra e percepire lo scorrere del tempo si fece sempre più difficile. Si accorse ben presto che questo lavoro non lasciava spazio a molto altro: otto ore al giorno a correre da un posto all’altro, una pausa pranzo in un parcheggio ombreggiato a mangiare due tramezzini seduto sul cofano della Panda e alla fine di nuovo a casa, stanco. Uscire la sera coi suoi amici divenne per sua stessa sorpresa un peso, dopo una doccia e la cena l’unico desiderio era quello di andare a dormire. «Tommi mi sa che sto invecchiando» disse Giulio al suo migliore amico dopo l’ennesima sera trascorsa a casa. «No, stai solo lavorando troppo» – gli rispose glaciale Tommaso. E in effetti Giulio vecchio non lo era per niente, e la voglia di coltivare le amicizie non gli mancava. “Come fa la gente a vivere così?” continuò a domandarsi Giulio durante quell’estate. “Come fanno a vivere così per 30 40 anni senza sentirsi maledettamente soli? come fanno a curare i loro affetti?” Forse la risposta era proprio negli occhi di Fabrizia. Ben presto l’entusiasmo iniziale verso Giulio lasciò spazio allo sguardo assente con cui guardava tutti gli altri colleghi; l’illusione che quel giovane potesse, con la sua vitalità, cambiare quel mondo fatto di ripetitività e fatture lasciò il posto alla consapevolezza che sarebbe stato proprio quel mondo a cambiare Giulio, a renderlo come tutti gli altri, più simili a delle piante morte che a degli esseri umani. Il lavoro gli avrebbe succhiato l’anima come aveva visto fare a tanti giovani prima di lui e questa volta, Fabrizia, non aveva nessuna intenzione di esserne complice.
Giulio non si sentì mai così tanto adulto come durante quell’estate, ma neanche così tanto solo. Forse la vita dei grandi non è come se l’era immaginata e si ripromise che avrebbe fatto di tutto per starne alla larga.

IV

Giulio divenne molto critico verso il mondo del lavoro, ma mai scansafatiche. Aveva ancora un forte desiderio di realizzarsi in un mestiere, si trattava solo di trovare il giusto equilibrio con le cose a lui più care della vita. “Forse è per questo che bisogna studiare” pensò dopo quella calda estate, “per evitare quella distruttiva ripetitività e fare qualcosa che solo io posso fare”. Decise allora di iscriversi all’università e fu subito catturato dal fascino di tutta quella cultura in circolo, dalla conoscenza e dalla passione degli insegnanti di cui tentava di assorbire ogni parola. Un giorno si recò alla prima lezione di marketing, un corso che c’entrava poco coi suoi studi umanistici, ma che lo incuriosì moltissimo. Ad aspettarlo c’era un giovane professore, alto, slanciato e vestito con un abito grigio esageratamente attillato sulle cosce, motivo per cui, forse, passava tutta la lezione in piedi cercando lo sguardo e la partecipazione delle prime file. «Il compito del marketing è generare bisogni» esordì con soddisfazione il primo giorno. Ne seguì un intenso semestre fatto di carismatiche lezioni in cui spiegò le strategie dietro alle fidelity card delle compagnie aeree, i trucchi per alzare il prezzo dei prodotti in base alla grandezza delle confezioni e, soprattutto, una puntuale analisi della psiche umana, per conoscerne i punti deboli su cui piantare il seme del bisogno. Ovviamente non occorreva essere grandi intellettuali per capire che quei bisogni erano bisogni superflui, indotti da un sistema che magicamente riesce a perpetuare sé stesso, ma il professore sembrava parlarne estasiato, il suo ego si eccitava visibilmente nello svelare ed esaltare le strategie più efficaci e gli studenti ne uscivano sempre più contagiati. Solo Giulio sembrò profondamente avvilito da quelle lezioni, percepiva una grande intelligenza emotiva usata per sfruttare le fragilità delle persone e l’entusiasmo dei suoi compagni verso tutto questo diventava sempre più difficile da accettare per lui. Quel semestre fu un grande bagno di realtà: scoprì che esistono ingegneri pagati per progettare l’obsolescenza delle cose e una serie di altri lavori inutili creati solo per arricchire chi ricco già lo è. Che il mondo del lavoro potesse essere spregevole non era poi una novità, ma che le università contribuissero a renderlo tale sì, e Giulio ne uscì profondamente deluso e arrabbiato.

Un giorno, al bar coi compagni dopo la lezione di marketing, all’ennesimo elogio del professore Giulio non riuscì più a trattenersi: «State venerando uno stronzo che vi insegna a lucrare sulle debolezze della gente». I compagni ammutoliti lo fissarono, indecisi se pensare che stesse scherzando o fosse serio. «La conoscenza dovrebbe servirci per liberare le persone, non per renderle schiave. È davvero questo il contributo che volete dare al mondo?». Nessuno rispose. «Idioti!».
Giulio si alzò frenetico lasciando alle proprie spalle un imbarazzante gelo e sul tavolo un Campari Cynar appena iniziato.


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